... rilegati i fascicoli. La lettura del romanzo è sempre stata quindi per me un lungo e piacevole rito, ripetuto più e più volte nel corso della vita. Quest’anno avrà il carattere speciale della celebrazione, perché il capolavoro manzoniano ha compiuto 200 anni.
FIGLIO DEI “LUMI”
Lo possiamo dire senza paura di essere smentiti: Alessandro Francesco Tommaso Manzoni, nato a Milano il 7 marzo 1785, è quanto di meglio l’Illuminismo italiano abbia mai partorito. La madre di Alessandro, Giulia, era la figlia del marchese di Villareggio, ovvero del grande illuminista Cesare Beccaria (1738-1794), che nel 1764 aveva pubblicato Dei delitti e delle pene, un libro che opponeva la ragione alle storture e agli obbrobri del sistema giudiziario del suo tempo e che ebbe una grande risonanza in tutta Europa. Come se non bastasse essere nipote di cotanto nonno, il padre di Alessandro era Giovanni Verri, fratello del più noto Pietro, il principale esponente della scuola illuministica milanese. Manzoni, insomma, apparteneva alla più alta aristocrazia intellettuale. Una piccola macchia familiare, a dire il vero, c’era: Manzoni era quello che si dice un “figlio della colpa”. Già, perché Giovanni Verri non era il marito, ma l’amante della madre. Quando mise al mondo Alessandro, Giulia era sposata con l’anziano conte Pietro Manzoni, il quale, pur sapendo che il bambino non era suo, lo riconobbe come figlio. Non fu che il primo di molti scandali con al centro Giulia Beccaria, una donna che, guardata con gli occhi di oggi, ci appare straordinaria per forza e spirito di indipendenza, ma che nella sua epoca aveva fatto “chiacchierare” la bella società milanese, stesurasoprattutto dopo l’abbandono del tetto coniugale e la “fuga” a Parigi con un nuovo amante, il giovane conte Carlo Imbonati.
Alessandro matura un carattere del tutto opposto a quello della madre. Schivo, riservato, amante della stabilità, a cominciare da quella dei sentimenti, si sposa a 23 anni e con la moglie, Enrichetta Blondel, avrà ben 10 figli. A partire dal 1810, la fede religiosa entrerà prepotentemente nella sua vita, influenzando definitivamente un’estetica e una poetica che troveranno compimento proprio in quello che, tra i suoi capolavori, è destinato a divenire il più noto: I promessi sposi.
DA FERMO E LUCIA AI PROMESSI SPOSI
“Manifestare ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che hanno fatto, in questo consiste la poesia drammatica; creare fatti per adattarvi dei sentimenti, è il grande compito dei romanzi”. Manzoni è sempre esplicito e trasparente nell’esprimere le sue intenzioni. Questa dichiarazione permette di comprendere meglio perché scelse il genere del romanzo storico, che aveva appena visto la luce in Europa grazie all’inglese Walter Scott ea libri come Waverley (1814) e Ivanhoe (1819). Sarebbe stata la storia a “creare” i fatti cui adattare “ciò che gli uomini hanno sentito, voluto, creato e sofferto”.
Già, ma quale storia? Manzoni pensa alla Milano del XVII secolo, dominata dagli Spagnoli. È in quel contesto che “getta” i suoi eroi Fermo e Lucia, che danno il titolo alla prima stesura del romanzo. Manzoni inizia a scriverlo nella primavera del 1821. Per dare una patente di plausibilità alla storia, ricorre all’espediente del vecchio manoscritto ritrovato. Questa è però solo la ragione apparente. Quella reale si trova nella prima versione dell’introduzione al Fermo e Lucia: in un’Italia nella quale la letteratura è per i pochi, anzi pochissimi, eletti in grado di leggere testi scritti in un italiano astruso, o peggio in latino, lo scopo è scrivere una storia in una lingua che tutti siano in grado di comprendere.
Il problema della “lingua” è centrale fin dall’inizio e ci aiuta a capire perché, prima di esserne pienamente soddisfatto, tra il 1823 e il 1840 Manzoni riscrive il romanzo altre due volte. A Fermo e Lucia seguirà dunque un’edizione pubblicata nel 1827, completamente riveduta e corretta anche nel titolo, che è diventato I promessi sposi. La redazione definitiva verrà realizzata ancora più avanti, tra il 1840 e il 1842.
LA TRAMA
Nella Lombardia del 1600, dominata dagli Spagnoli, Lorenzo Tramaglino e Lucia Mondella sono due giovani promessi sposi che vivono nei pressi di Lecco, sul Lago di Como. Il loro matrimonio è contrastato da Don Rodrigo, un signorotto locale che si è invaghito della bella Lucia. Un giorno due sgherri di Don Rodrigo —i bravi— si presentano a Don Abbondio, il prete che dovrebbe celebrare il matrimonio, e con le minacce gli dicono di non sposare i due giovani. Renzo viene a sapere delle intenzioni di Don Rodrigo e decide di rivolgersi all’avvocato Azzeccagarbugli, che si rifiuta di aiutarlo. Lucia chiede invece aiuto a Fra’ Cristoforo, il suo confessore, ma il frate non riesce a convincere Don Rodrigo a rinunciare a Lucia. Renzo e Lucia cercano di sposarsi in segreto, ma il piano fallisce. Don Rodrigo, intanto, cerca di far rapire la ragazza, quindi i due giovani scappano. Lucia andrà a Monza e si metterà sotto la protezione della monaca Gertrude (la Monaca di Monza), mentre Renzo troverà rifugio a Milano. Tradita da Gertrude, Lucia viene rapita dall’Innominato, che la porta al suo castello. In seguito a una profonda crisi di coscienza l’Innominato libera Lucia. Intanto a Milano, invasa dai Lanzichenecchi, scoppia un’epidemia di peste che presto si diffonde in tutta la Lombardia. Renzo si ammala, ma guarisce; Don Rodrigo, dopo avere contratto il morbo, muore. Passata la peste, finalmente Renzo e Lucia si ritrovano e si sposano.
In una lettera del 20 aprile del 1823 indirizzata all’amico Tommaso Grossi, Manzoni anticipa alcuni motivi che ritroveremo, quasi con le stesse parole, nell’introduzione aI promessi sposi. E curiosamente, mentre nell’introduzione il ritrovamento del manoscritto è chiaramente descritto come un espediente letterario, nella lettera all’amico viene fatto passare come un fatto realmente accaduto: “Se non che mi venne dato di rinvenire un vecchio autografo dilavato. Lettolo e trovata bella la storia racchiusavi mi era sorta l’idea di darlo alla luce, ma come è scorretto!” Ecco, l’italiano letterario fino a quel momento era come quel vecchio manoscritto “graffiato e dilavato”. Insomma, sporco: “Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati (…). Non era lavoro tale da offrirsi a moderni lettori, i quali non tanto avrebbero in esso encomiata la bellezza dell’argomento, quanto avrebbero criticato l’ineleganza del dettato. Pensai allora di prendere dal manoscritto la serie de’ fatti e, ripudiando il suo stile, surrogargliene un altro più forbito e moderno”.
Ecco che, in un’Italia dove si parlava quasi esclusivamente il dialetto, Manzoni si mette in cerca di una lingua a tutti comprensibile e il più vicina possibile all’italiano parlato. Gli sembra di trovarla nel vernacolo toscano, in particolare nell’italiano parlato dai fiorentini colti. Così, nel 1827, Manzoni si trasferisce con la famiglia in Toscana, al numero 4 di Lungarno Corsini a Firenze. Il suo è un vero e proprio viaggio di studio in tutti i sensi, durante il quale Manzoni si getta a capofitto nel lavoro: “Ma tu sai come sono occupato: ho settantun lenzuola da risciacquare, e un’acqua come Arno e lavandaie come Cioni e Niccolini, fuor di qui, non le trovo in nessun luogo”, scrive il 17 settembre del 1827 al solito Tommaso Grossi.
“CARNEADE, CHI ERA COSTUI?”
Non ho avuto la fortuna di leggere I promessi sposi prima che me lo imponessero a scuola. E purtroppo a scuola il romanzo rischia di diventare vuoto, dominato da un unico motivo: la Provvidenza. In quest’ottica, i personaggi finiscono per muoversi come automi, come macchine prive di volontà, il cui agire è pre-disposto, pre-determinato da forze superiori. Tutto accade perché deve accadere. Per fortuna in Manzoni c’è di più eI promessi sposi offrono davvero, come scrive Sciascia, un “ritratto disperato della condizione umana”. Devo proprio allo scrittore siciliano, del resto, se un pomeriggio di molti anni fa ho ripreso in mano il vecchio volume lasciatomi da mio padre. È sorprendente, a ogni ri-lettura, la capacità di rendere vivi e vicini i personaggi, di dare conto di un mondo, di un’Italia che – basta grattare la superficie – è ancora quella dei Don Abbondio e degli Azzeccagarbugli, dei Don Rodrigo e dei Frate Cristoforo, degli Innominati e delle Monache di Monza. Basta citare alcuni personaggi manzoniani per evocare subito ben precise caratteristiche e il nome di alcuni di loro è usato ormai per antonomasia, come un nome comune. Azzeccagarbugli, per esempio, è l’avvocato che usa una lingua incomprensibile, ingarbugliata. Il suo potere consiste proprio nel non farsi comprendere (la legge, la burocrazia…); Don Abbondio è l’opportunista, il codardo, quello che pensa solo agli affari suoi, il forte coi deboli e debole con i forti, colui che, se ha fatto il male, è stato spinto dalla necessità, da una forza esterna, terrena o sovrannaturale. E chi non si è trovato almeno una volta nella vita ad avere a che fare con l’uno o con l’altro? Persino Carneade, il filosofo minore del II secolo che Don Abbondio –e certo non soltanto lui – non ha mai sentito nominare, ha conosciuto il suo momento di gloria, divenendo, proprio grazie al romanzo, emblema di ogni illustre sconosciuto. E si potrebbe continuare praticamente all’infinito, perché in 200 anni il capolavoro di Manzoni, “uno dei migliori e più interessanti romanzi che siano mai stati scritti”, non ha perso la capacità di aprire porte alla riflessione su quel mistero che è l’essere umano.